Intervista con il pedagogo Maurizio Parodi
Nella prima parte del suo testo spiega perché i “compiti a casa” sono inutili o addirittura dannosi. Ci può dare un sunto delle sue considerazioni?
È ormai noto che per accrescere le facoltà mentali (di apprendimento), si debba disporre delle nozioni essenziali, bisogna cioè sapere. Ben più rilevanti sono però le modalità di trattamento e uso delle informazioni, e, più in generale, la capacità di gestire la risorsa apprendimento, di mobilitare strategicamente le abilità acquisite e di trasferirle in contesti nuovi e diversi.
Persino la flessibilità, imposta come paradigma professionale da un mercato del lavoro sempre più immateriale e fluttuante, spinge verso l’acquisizione di abilità metacognitive, quelle che consentono la più rapida riconversione delle competenze, l’adeguamento più agile dei propri repertori cognitivi e comportamentali ai mutamenti dell’ambiente.
Se la capacità di imparare è per gli individui la risorsa più preziosa, allora la scuola dovrebbe considerarla una priorità istituzionale, dovrebbe collocarla al centro della propria riflessione pedagogica, dovrebbe concentrare su di essa il massimo impegno, dispiegare tutti i mezzi disponibili e profondere le migliori energie (innanzitutto professionali), dovrebbe farne il cuore della propria mission.
E la scuola cosa fa? Gli insegnanti danno i compiti a casa, perché gli studenti imparino (memorizzando le nozioni), e imparino a imparare, acquisiscano, cioè, un “metodo di studio”. Gli insegnanti spiegano e gli alunni studiano. In altre parole, a scuola si insegna e a casa si impara. Uno stupefacente paradosso: il “compito” principale della scuola è di fatto delegato per intero allo studente che deve provvedervi autonomamente, con proprie risorse, familiari e non, trasformando molti genitori (quelli disponibili e capaci) in docenti di complemento.
Cosa pensa in particolare dei compiti a casa nella scuola primaria?
Sono tanto più inutili, o dannosi, proprio perché nella scuola primaria si dovrebbero far emergere e potenziare leformidabili capacità di apprendimento degli alunni, quelle che hanno permesso, ad esempio, di imparare a parlare (dimostrazione inequivocabile che i bambini imparano anche senza “essere insegnati”).
“Scoprire le capacità dei bambini, riconoscerle e meravigliarsene non è per essi il modo migliore di essere valorizzati?”, ha scritto Gillet-Polis. I docenti ignorano gli “stili cognitivi” degli allievi, e si limitano a un insegnamento univoco, oltre che unilaterale; non si curano di controllare la “proprietà”, la fruibilità degli interventi didattici, non lo sentono come compito loro: loro insegnano, sono gli studenti che devono imparare (a imparare).
Dunque la scuola, paradossalmente, non fa proprio la cosa più importante, e gli insegnanti continuano a dare i compiti a casa, infliggendo agli alunni e alle loro famiglie un onere anche molto gravoso, tanto più pesante quanto più lo studente sia disagiato, bisognoso, solo; quanto più la sua famiglia sia indigente e deprivata.
Già, perché i ragazzi che abbiano genitori premurosi e culturalmente attrezzati possono affrontare l’impegno domestico con serenità o minore insofferenza; ma per chi non trovi nelle figure parentali sostegno e sollecitudine, e magari ne debba subire la latitanza o, peggio, l’intemperanza, l’ignoranza e l’insensibilità, le difficoltà poste dallo svolgimento degli stessi compiti assumono ben altra consistenza; la fatica, spesso incomprensibile e frustrante, è incomparabilmente più dolorosa.
Ancora un paradosso: gli studenti che non hanno problemi svolgono regolarmente i compiti loro assegnati, e per questo la scuola li premia; gli studenti che invece hanno problemi (personali e/o familiari), quelli che della scuola avrebbero più bisogno, non fanno i compiti, li sbagliano, li fanno male, indisponendo i docenti che per questo li biasimano e redarguiscono, infierendo con brutti voti, note e, finalmente, la bocciatura, punendo così l’indigenza, il disagio, la sofferenza, espellendo dal “sistema” proprio chi nel “sistema” potrebbe trovare l’unica opportunità di affermazione, di affrancamento e promozione.
Tra le attività demoralizzate dai compiti, lei mette la lettura, la gioia d’insegnare e quella d’imparare. Perché?
A proposito di paradossi: i ragazzi leggono poco, ma gli adulti che di questo li rimproverano, leggono molto meno.Evitiamo perciò di inveire contro i giovani: “se ragli si sentono,” ebbe a dire Tullio De Mauro “vengono da un’altra parte”. In verità è ben triste constatare che i ragazzi, e soprattutto le ragazze, leggono più degli adulti e che i bambini leggono più dei ragazzi: con il passare degli anni scolastici l’interesse per il libro anziché crescere, si riduce, sino a scemare.
Rispetto alla scarsa attitudine alla lettura che ci contraddistingue, possiamo assumere atteggiamenti diversi:colpevolizzare i giovani, per definizione sempre più superficiali ed incolti (senza prenderci il disturbo di interrogarci su eventuali responsabilità degli adulti); criminalizzare i media emergenti, i videogiochi, Internet – diabolici corruttori di fanciulli sprovveduti e inermi (chissà per demerito di chi…); oppure, più seriamente, potremmo domandarci se la scuola sia davvero esente da colpe, se si preoccupi di favorire l’incontro con il libro o se, al contrario, ne induca il rigetto. I libri si scrivono perché gli altri li leggano e ne ricevano informazioni, suggestioni, conforto e insegnamento, e non perché siano sezionati con accanimento necroscopico in ambienti emotivamente sterili.
Spesso, invece, si pratica la macellazione del testo letterario che, squartato e fatto a pezzi, viene “grigliato”, insaporito con annotazioni e commenti, e infine servito a scolari inappetenti, nauseati e facili al rigetto (non di rado, definitivo). Così “il libro diventa un oggetto contundente, un blocco di eternità, la materializzazione della noia”, ammonisce Daniel Pennac. È come se, prosegue ancora Pennac “il ruolo della scuola si limitasse sempre e dovunque all’apprendimento di tecniche, all’imperativo del commento e con la proscrizione del piacere di leggere impedisse l’accesso immediato ai libri. Sembra assodato, da sempre, sotto ogni latitudine, che il piacere non debba figurare nei programmi scolastici e che la conoscenza possa essere solamente il frutto di una sofferenza ben capita”.
Fortunata (ma esiste?) la scuola che abbia l’audacia di scommettere fino in fondo sulla gioia della cultura, capace di costruire, di “creare” un sapere disponibile a qualsiasi età – per un bambino, la cultura consiste nell’elaborazione delle sue esperienze, dei suoi stupori, dei suoi interrogativi, come del suo linguaggio.
“Non è il premio individuale materiale e vano” ha scritto Maria Montessori “lo stimolo psichico che spinge in alto le espansioni molteplici della vita umana: esso deturpa nella vanità la grandezza della coscienza e la costringe nei limiti dell’egoismo. Lo stimolo degno dell’uomo è la gioia che egli prova sentendo ingrandire se stesso”. Allora la gioia può scaturire dal contatto diretto con i capolavori dell’ingegno umano, dai grandi poemi d’amore fino alle più ardite realizzazioni tecniche e scientifiche; dalla tensione verso le opere più complesse; dalla partecipazione ai movimenti organizzati che permettono agli uomini di migliorare il proprio tenore e stile di vita. “Amare un testo, capire come funziona un motore, comprendere cosa sono il capitalismo, il socialismo, la globalizzazione, il pacifismo… non è solo utile, è anche “bello” – sono parole di Georges Snyders.
La sua posizione ha suscitato la reazione di Corrado Augias e poi un folto dibattito in rete. La seconda parte del volume è dedicata appunto a questo episodio. Perché ha deciso di inserire in presa diretta le voci dei commentatori? E quale ruolo crede che possano avere i social nella riflessione sulla scuola?
Credo che la messa in sinergia delle competenze, delle risorse e dei progetti, la costituzione e la conservazione dinamica di memorie comuni, l’attivazione di modi di cooperazione flessibili e trasversali sviluppino processi di intelligenza collettiva. Ora il cosiddetto “cyberspazio”, dispositivo di comunicazione interattivo e comunitario, si presenta proprio come uno degli strumenti privilegiati dell’intelligenza collettiva.
È grazie a esso che, per fare un esempio, gli organismi di formazione professionale o d’insegnamento a distanza sviluppano sistemi di apprendimento cooperativo in rete. Le grandi imprese creano dispositivi informatizzati di supporto alla collaborazione e al coordinamento decentrato(i groupware o software collettivi).
I ricercatori e gli studenti di tutto il mondo si scambiano idee, articoli, immagini, esperienze e osservazioni nell’ambito di newsgroup organizzati da diversi centri d’interesse. Nello specifico, il network “Ning: La scuola che funziona”, mi ha permesso di confrontarmi con docenti e genitori che non avrei altrimenti potuto consultare, sollecitando riflessioni, puntualizzazioni preziose.
Nella sezione finale del suo volume fa delle proposte concrete su come risolvere la situazione d’impasse creata dai compiti a casa. Potrebbe darcene una panoramica?
Può essere utile, in particolare, riprendere le parole di Antoine de La Garanderie, allorché evidenzia come gli studenti, abbandonati a se stessi nel momento di maggior bisogno (formativo) siano costretti a procedere per tentativi nello sforzo di imparare, e di imparare a imparare: “Alcuni,” scrive “a forza di provare senza riuscire, finiscono col rinunciare, per disperazione. Non sarebbe più sensato fare della scuola il luogo nel quale s’insegna la pratica dei gesti mentali che sono la condizione necessaria per l’adattamento scolastico?”. I gesti mentali di cui parla de La Garanderie, decisivi ai fini del successo (e del fallimento scolastico) possono essere appresi, se il docente si rende in tal senso disponibile. Lo chiarisce usando una metafora alimentare:
“L’insegnante, il quale creda che il suo ruolo di messaggero del sapere si risolva nella presentazione chiara, ordinata, misurata, ricca di esempi, adeguata nel linguaggio al livello dei suoi allievi, sbaglia completamente. Fa pensare al cuoco che abbia preparato un piatto con molta cura, per renderlo appetitoso, e che lo offra a commensali che ignorino l’uso delle posate, che non sappiano come il cibo debba essere portato alla bocca… sarebbe desolato di doverlo ritirare senza che nessuno lo abbia neppure toccato… Il cuoco supponeva che l’atto di mangiare fosse naturale, quindi ha concluso che se i convitati non hanno compiuto l’atto di cibarsi è perché sono incapaci di nutrirsi o perché sono pigri al punto da rifiutare lo sforzo richiesto per sollevare il cibo dal piatto. In realtà i suoi ospiti non mancano di appetito, ma sono sprovvisti dei mezzi necessari a soddisfarlo. Questi mezzi devono essere loro forniti, e spetta al cuoco di mostrare cucchiai, forchette, coltelli e l’arte di servirsene.”
Più in generale, come spiegato nell’ultimo capitolo del libro (Accogliere, prima di tutto), è necessario che bambini e ragazzi siano rispettati e responsabilizzati, promossi da oggetto di discussione a soggetti attivi, mediante la presa di coscienza della propria condizione. Va data loro fiducia, devono essere sostenuti nei loro primi tentativi di “muoversi” autonomamente, dalla presenza rassicurante e stimolante di adulti così maturi e sensibili da crederli capaci di organizzarsi, di decidere, di agire.
Porre lo studente al centro della scuola significa liberarlo da ogni paura, motivare significativamente il lavoro, farne occasione di gioia condivisa da una comunità di compagni che non siano in competizione, che non appaiano tra loro antagonisti, dare spazio alla sua esperienza, valore ai suoi sentimenti, sostegno alla sua ricerca. Spetta all’insegnante decidere come impostare l’intervento, scegliere tra due opposti orientamenti, e stabilire se agisce per asservire o per liberare.
http://www.educareallaliberta.org/basta-compiti-non-e-cosi-che-simpara-un-libro-di-maurizio-parodi-una-conferenza-e-una-intervista/”
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