Di che cultura sei?
Cosa racconti nel recente libro “Basta compiti”?
Spiego perché i compiti a casa sono superflui o dannosi, procurano disagi anche gravi agli studenti e alle loro famiglie senza che ne sia mai dimostrata l’utilità, e risultano discriminanti proprio perché indiscriminati: il compito è lo stesso per tutti.
I docenti ignorano gli «stili cognitivi» degli allievi, e si limitano a un insegnamento univoco, oltreché unilaterale; non si curano di controllare la «proprietà», la fruibilità degli interventi didattici, non è compito loro: loro insegnano, sono gli studenti che devono imparare (a imparare). Dunque la scuola, paradossalmente, non fa proprio la cosa più importante, e gli insegnanti continuano a dare i compiti a casa, infliggendo agli alunni e alle loro famiglie un onere anche molto gravoso, tanto più pesante quanto più lo studente sia disagiato, bisognoso, solo; quanto più la sua famiglia sia indigente e deprivata.
Già perché i ragazzi che abbiano genitori premurosi e culturalmente attrezzati possono affrontare l’impegno domestico con serenità o minore insofferenza; ma per chi non trovi nelle figure parentali sostegno e sollecitudine, e magari ne debba subire la latitanza o, peggio, l’intemperanza, l’ignoranza e l’insensibilità, le difficoltà poste dallo svolgimento degli stessi compiti assumono ben altra consistenza; la fatica, spesso incomprensibile e frustrante, è incomparabilmente più dolorosa.
Ancora un paradosso: gli studenti che non hanno problemi svolgono regolarmente i compiti loro assegnati, e per questo la scuola li premia; gli studenti che invece hanno problemi (personali e/o familiari), quelli che della scuola avrebbero più bisogno, non fanno i compiti, li sbagliano, li fanno male, indisponendo i docenti che per questo li biasimano e redarguiscono, infierendo con brutti voti, note e, finalmente, la bocciatura, punendo così l’indigenza, il disagio, la sofferenza, espellendo dal «sistema» proprio chi nel «sistema» potrebbe trovare l’unica opportunità di affermazione, di affrancamento e promozione.
La scuola discrimina e mortifica chi è più svantaggiato, marginale, infelice, declinando in nuova forma l’ingiustizia, l’offesa già subita.
Inoltre i docenti operano nella reciproca ignoranza: ciascuno stabilisce i propri come fossero gli unici compiti da svolgere, senza curarsi di verificare quali e quanti altri compiti, assegnati dai colleghi, si dovranno svolgere nella stessa giornata, con il risultato di costringere per interi pomeriggi (e anche serate) a un impegno estenuante corpi e menti bisognosi anche di “moto” rigenerante – capita, non di rado, che i genitori si sostituiscano, forzatamente, non solo ai docenti ma anche ai figli nell’adempimento degli obblighi “domestici”.
Per giunta, l’offerta della scuola è assai povera, mutilata di fondamentali insegnamenti: l’educazione artistica, l’educazione musicale, l’educazione fisica… sono pressoché ignorate o malamente praticate, nonostante interessino dimensioni dell’essere (umano) imprescindibili. Da qui la necessità di svolgere attività formative (irrinunciabili) al di fuori della scuola, oltre gli orari delle lezioni, che richiedono tempo, energie, impegno, esercizio… e che si aggiungono ai compiti a casa o che dai compiti a casa sono impedite.
Nel libro spiego quali potrebbero e dovrebbero i compiti di una scuola davvero accogliente e formativa.
Ne “La scuola che fa male” hai esposto le tue rimostranze verso il sistema educativo scolastico. Perché pensi che le delusioni che uno studente avverte nella scuola possano avere ripercussioni nell’età adulta?
Al di là degli altisonanti proclami, la scuola che nega le differenze, che “respinge”, che ignora i propri utenti, i loro bisogni, le loro richieste (anche di aiuto) non si è mai estinta (e la scuola che respinge boccia se stessa).
È la scuola che si propone in modo indiscriminato anteponendo le proprie “particolari” ragioni, non di rado irrazionali e comunque dettate da logiche interne, agli stessi compiti che la società (ufficialmente) le assegna, limitandosi all’osservanza formale degli adempimenti richiesti.
Non si interroga sulle identità, sui vissuti degli individui che le sono affidati; eroga un servizio standardizzato che disconosce le specificità, imponendo l’omologazione; persegue, di fatto, la soluzione delle differenze (in livellanti uniformità) comportandosi come se tutti fossero uguali, in altre parole come se non fossero: la lezione è uguale per tutti, peggio per i diversi (cioè tutti); l’insegnante rivolge agli scolari domande retoriche (le sole risposte ammesse sono quelle prestabilite), e dà risposte a domande mai poste, insignificanti.
Perciò censura o stigmatizza il disadattamento, emarginando e, finalmente, allontanando i soggetti portatori di altri valori, di culture incompatibili, bandendo o medicalizzando la diversità.
Si attivano, nei confronti dei disturbatori, dinamiche espulsive, consapevoli e inconsapevoli, formali e implicite, che, nei casi più gravi, rappresentano la concausa dell’abbandono di vasti strati di minori “difficili” alla deriva dell’emarginazione e della microcriminalità.
Un autentico paradosso, considerato che la scuola non dovrebbe emarginare chi è diverso, né chi non sa, né chi non ha voglia di sapere, riconoscendo, anzi, tutti questi come suoi problemi, come l’oggetto stesso del proprio operare, e non come ostacoli al suo ordinato svolgimento.
Chi meglio si adegua viene accolto, chi non vuole o non può adattarsi viene respinto. Per altro la scuola non “promuove” l’esercizio e lo sviluppo delle diverse abilità, delle diverse intelligenze di cui ciascuno è variamente provvisto: la scuola premia alcune abilità, alcune modalità d’uso dell’intelletto e soltanto quelle (per giunta le meno elevate, quelle legate alla ripetizione, alla memorizzazione), “bocciando” le altre che in taluni, fortunati casi la vita si riserva di riscattare: vi sono imprenditori, giornalisti, persino scrittori, filosofi e scienziati che hanno trascorsi scolastici non propriamente brillanti); gli altri maturano la convinzione di essere inabili allo studio, alla cultura: un danno personale e sociale gravissimo.
Qual è il tuo film preferito?
Difficile scegliere. Mi sovvengono titoli “antichi”, come: “Il piccolo grande uomo” o “I tre giorni del Condor”. Più di recente: “Matrix”. Però sono quasi certo che il film rivisto più volte (innumerevoli) sia “Shrek”, con mio figlio …ma anche da solo: adoro i film di animazione.
Qual è il tuo libro preferito e ti ricordi dove lo hai letto?
Il più bello: “Guerra e pace”. Il più avvincente: “Il nome della rosa”. Il più illuminante: “Come un romanzo”
Qual è il tuo cantante e album preferito?
Non ho un cantante preferito: sono affezionato alla musica rock e ai cantautori degli anni settanta.
Qual è la tendenza che segui, in ambito tecnologico?
Cerco di sopravvivere, spesso parassitariamente: approfitto di amici “digitali” e di mio figlio, anagraficamente multitasking (11 anni)
Qual è il tuo prossimo progetto?
Dopo la recente pubblicazione del mio ultimo libro: “Gli adulti sono bambini andati a male (per genitori, educatori docenti che vogliono imparare a non insegnare)”, riporre la penna, anzi la tastiera. https://www.mauxa.com/intervista/2013-09-17-books-00015616-intervista-a-maurizio-parodi-un-libro-per-una-scuola-accogliente-e-formativa-senza-compiti
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