Il pedagogista centenario: «Cari professori, basta compiti a casa»
La scuola non dev’essere un luogo in cui si fanno solo lezioni e interrogazioni, che in realtà distruggono l’apprendimento. E fuori i ragazzi devono avere un’altra vita
«Avete scovato un vecchietto e lo avete portato in questa bella sala, sono io a dover essere emozionato e non voi». È cominciato così ieri pomeriggio l’incontro aperto a Palazzo Lascaris con il pedagogista Francesco De Bartolomeis, mito vivente del mondo della scuola torinese e non solo. Nato a Salerno nel 1918, il 20 gennaio compirà 101 anni. E l’Assessorato all’Istruzione della Regione Piemonte ha voluto omaggiarlo in occasione dell’uscita del suo ultimo libro «Fare scuola fuori dalla scuola», ristampa di un testo apparso nel 1983. Cresciuto sotto il fascismo, allievo di Ernesto Codignola, traghettò la pedagogia italiana fuori dal fascismo, traducendo per la Loescher tutti gli autori più innovativi. Ha insegnato pedagogia all’Università di Torino dal 1956 al 1988 e qui realizzò a partire dal 1972 il sistema dei laboratori, prima a livello universitario e poi nella nascente scuola a tempo pieno. Per l’occasione di ieri ha portato il bastone, ma non lo usa quasi mai. Ha firmato le copie di libri ingialliti dal tempo dei suoi ex allievi ora docenti universitari, educatori, presidi, con quel modo tutto suo di essere spigoloso con dolcezza.
Professor De Bartolomeis, è arrivato a Torino nel ’56 e non l’ha più lasciata…
«Sì abito qui dal ’56, da quando vinsi un concorso e mi chiamò l’Università. Prima insegnavo a Firenze, ma Torino è diventata la mia città. Però la radice salernitana non se ne va, resta nell’accento e ci tengo. Non è che lo faccio apposta, è rimasto».
Come trascorre le sue giornate da centenario?
«Sempre con tanta attività, mi alzo verso le 6 del mattino, faccio colazione, lavoro un po’ al computer e poi vado in piscina. Faccio anche la spesa, al mercato e poi nel negozio dei surgelati, che per me è una vera istituzione sociale. Per pranzare basta prendere il piatto e metterlo nel forno a microonde o al massimo in padella. Non ho un aiuto in casa perché non lo voglio. Ho una compagna, ma abita per conto suo».
Quindi continua ad andare in piscina tutti i giorni?
«Di norma facevo 50 vasche, poi ho avuto un problema al tendine di una spalla e ora sono tornato a farne 30. Vado nella piscina di via dei Mille, quella del Collegio San Giuseppe. Continuo sempre a scrivere, anche di arte, la mia passione dagli anni ’40. L’attività, compresa quella mentale, mi dà forza».
Dove sta andando la scuola di oggi?
«Ho un giudizio molto negativo sulla politica scolastica, sul governo della scuola. Ci sono situazioni sparse nel paese dove gli insegnanti, con l’aiuto delle istituzioni, fanno delle cose nuove. Ma la politica della scuola non esiste più dai tempi di Luigi Berlinguer, quando invece sarebbe essenziale per il rinnovamento del paese. L’educazione non è solo un diritto soggettivo, ma un interesse sociale. Un paese ignorante è anche povero economicamente».
Lei invece come se la immagina? Senza compiti? Senza zaino?
«Sono definizioni che si usano oggi, ma sono già state mie. Ad una condizione, però. La scuola deve essere un luogo dove si apprende davvero e non dove si fanno solo lezioni e interrogazioni che in realtà distruggono l’apprendimento. Fuori dalla scuola i ragazzi devono avere un’altra vita».
Lei dice che a scuola si deve «lavorare», in che senso?
«Per me è stata molto importante l’esperienza come coordinatore della scuola di formazione dell’Olivetti, anche se non incontrai personalmente Adriano perché era mancato da poco. Da professore universitario, ci portavo anche i miei allievi a lavorare con gli operai e poi a fare le tesi. L’apprendimento nasce dall’esperienza, dal lavoro. Con i dirigenti non facevo lezioni sul lavoro di gruppo, ma facevo lavorare in gruppo. In un vero «sistema formativo» la scuola è soltanto uno degli elementi: deve sempre interfacciarsi con la realtà economica e professionale».
Quindi sostiene l’alternanza scuola lavoro?
«Purtroppo è immiserita in un tirocinio, non c’è dietro una cultura del lavoro che dia una spinta innovativa. Si va nelle aziende così come sono, cristallizzate. Mentre l’alternanza dovrebbe essere qualificata dall’innovazione. E poi dovrebbe cominciare prima, non solo alle scuole superiori. Bisogna insegnare ai bambini ad interagire con la realtà. Inteso in questo senso, il lavoro viene ancora prima del gioco».
Progetti per il futuro?
«Alla mia età non considero il futuro, lavoro e basta. E ho un gruppo di amici che mi chiede qual è il segreto della mia longevità».
Qual è?
«La smodatezza, nel senso di buttarsi nelle cose, di continuare a partecipare. Mi salva il fatto di continuare a scrivere, pubblicare, incontrare gente».
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