Parodi, la scuola al tempo del contagio: Didattica a distanza non significa inondare di compiti
La scuola al tempo del contagio
di Maurizio Parodi
Fuor di retorica tecnofrenica, le testimonianze di moltissimi genitori, già esacerbati da una condizione di straordinario disagio, confermano la propensione ad appaltare lo svolgimento di parti sempre più cospicue del curricolo scolastico alle famiglie che, ovviamente, non sono professionalmente attrezzate per affrontare il “compito” improprio.
Nulla di nuovo, dunque, ma l’esasperazione, dovuta all’eccezionalità delle circostanze, di un paradigma indiscusso, inespresso, addirittura inconsapevole, ma fondamentale: a scuola si insegna e si impara a casa.
Si tratta di un principio che ignora patentemente la riflessione sulle competenze di cittadinanza (l’imparare a imparare) e le stesse “Indicazioni nazionali” (a proposito di metacognizione), istanze che dovrebbero essere recepite da tempo ma che restano, invece, estranee alla didattica reale.
È per effetto di questa impostazione, assurda e consueta, che la scuola si concede invasioni di campo pedagogicamente inammissibili, espropriando gli studenti degli indispensabili spazi di rigenerazione cognitiva e affettiva – dopo le tante ore trascorse inchiavardati negli angusti stalli di strutture inadeguate anche rispetto a logiche puramente concentrazionarie.
In questi giorni sembra diffondersi la tendenza alla completa esternalizzazione del “processo”, interamente demandato allo studente e ai genitori, laddove gli stessi siano in condizioni di potersi sostituire ai docenti, ciò che produce un ulteriore aggravamento del carattere censitario della scuola italiana, già drammaticamente discriminante (siamo ai vertici delle classifiche Ocse per incapacità di compensare le diseguaglianze di partenza).
Si riversano caterve di compiti, che già abitualmente opprimono fino all’esaurimento del tempo e delle energie, su bambini e ragazzi isolati perciò, paradossalmente, in condizioni ottimali (nessun compagno che disturbi) per ascoltare la lezione e svolgere gli esercizi.
Delle due, l’una: o l’insegnamento può essere delegato allo studente e alla famiglia, e allora non si capisce a cosa servano la scuola e i docenti, oppure gli insegnanti svolgono un ruolo insostituibile, come delineato dalle stesse “Indicazioni nazionali”, e allora non può essere rimesso a chi non può e non deve occuparsene.
Questa triste evenienza potrebbe essere una buona occasione per ripensare i paradigmi, il senso, la filosofia di un sistema in gravissima crisi peraltro agevolmente trascurata giacché trattasi di apparato autoreferenziale e ipertutelato.
Ma lo sarà solo per quei docenti (e ve ne sono) che, tra mille difficoltà, di ogni sorta (carenze di risorse, organici, strumenti…), incomprensioni ostilità (anche da parte dei colleghi), già si impegnano ben oltre gli obblighi di servizio, con sensibilità e intelligenza, per qualificare gli “ambienti di apprendimento” nei quali operano (coloro i quali riescono anche in questa gravosa situazione a stimolare e sostenere la crescita dei loro studenti). Per tutti gli altri, si tratterà della penosa conferma, anzi dell’“aulica” celebrazione di un malcostume pedagogico sempre più diffuso e nefasto.
Dirigente scolastico di lungo corso, vive a Genova e si occupa di ricerca e formazione in campo socio-pedagogico, non ancora rassegnato all’impermeabilità degli apparati educativi. Fondatore, amministratore e portavoce del gruppo Basta Compiti, ha pubblicato numerosi articoli e alcuni saggi, tra i quali: «Basta Compiti, non è così che si impara» (Edizioni Sonda), «Non ho parole. Analfabetismo funzionale e analfabetismo pedagogico» (Armando), «Così impari. Per una scuola senza compiti» (Castelvecchi)
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