La iattura dei compiti
La maggior parte degli insegnanti italiani ritiene importante lo studio a casa; è però assai raro che chiariscano a se stessi, prima ancora che agli alunni ed ai loro genitori, le ragioni di una così radicata e diffusa consuetudine.
Ancor più improbabile trovare negli strumenti di documentazione in uso nelle scuole (Registri, Agende, Quaderni, Diari, Verbali…) riferimenti a scopi men che generici: non vi è traccia di una definizione puntuale, operativa degli obiettivi didattici che ci si prefigge di raggiungere attraverso lo svolgimento dei compiti a casa.
Impensabile, date le premesse, la predisposizione di appositi strumenti di verifica, utilizzando i quali si possa stabilire se tale attività abbia prodotto gli effetti desiderati; non ci si impegna, cioè, a specificare gli indicatori (in termini di sapere, saper fare, saper essere) che dovrebbero stimare l’efficacia della procedura adottata.
Volendo essere ancora più chiari: gli insegnanti non dicono (e nemmeno scrivono) perché danno i compiti a casa, e non si attrezzano per stabilire se l’impegno è utile, in che senso lo è, se è questo il solo modo o il modo migliore, il più “economico” e razionale per ottenere i risultati (quali?) attesi.
La risposta che più frequentemente ricorre, nelle rare occasioni in cui qualcuno si provi a chiedere spiegazioni in merito, è fin troppo ovvia, quasi superflua: i compiti a casa servono allo studente per imparare a memorizzare i contenuti dell’insegnamento, a riferirli nel corso dell’interrogazione e impiegarli nella prova scritta, a strutturare logicamente le informazioni, a rielaborare i dati trasmessi durante la lezione o la lettura del manuale, per imparare ad applicare le conoscenze acquisite, a dimostrarne la padronanza, insomma per apprendere, costruire, sviluppare, perfezionare il metodo di studio.
Una dichiarazione ragionevole, ancorché non dimostrata, sulle cui implicazioni difficilmente ci si sofferma e interroga.
Il metodo d’insegnamento è una cosa molto importante – importante quasi quanto gli stili cognitivi degli studenti.
Ormai da tempo si sostiene che per accrescere le facoltà mentali (di apprendimento), si debba disporre delle nozioni essenziali, bisogna cioè sapere, ma ben più rilevanti sono le modalità di trattamento e uso delle informazioni, e, più in generale, la capacità di gestire la risorsa apprendimento, di mobilitare strategicamente le abilità acquisite e di trasferirle in contesti nuovi e diversi.
Il mito della massima e definitiva competenza è ormai tramontato da tempo; il pensiero più maturo riconosce la propria “debolezza”; la tecnologia crea nuovi alfabeti che incide sul display elettronico della comunicazione planetaria; la ricerca avviene in tempo reale, in un contesto (globale) caratterizzato da rapida usura e precoce obsolescenza dell’informazione utile. Persino la flessibilità, imposta come paradigma professionale da un mercato del lavoro sempre più immateriale e fluttuante, spinge verso l’acquisizione di abilità metacognitive, quelle che consentono la più rapida riconversione delle competenze, l’adeguamento più agile dei propri repertori cognitivi e comportamentali ai mutamenti dell’ambiente.
Dunque è necessario imparare, ma è fondamentale imparare a imparare. E la scuola cosa fa?
Gli insegnanti danno i compiti a casa, perché gli studenti imparino (memorizzando le nozioni), e imparino a imparare, acquisiscano, cioè, un “metodo di studio”.
Gli insegnanti spiegano e gli alunni studiano.
In altre parole, a scuola s’insegna e a casa s’impara. Uno stupefacente paradosso.
Se davvero la capacità d’imparare è per gli individui la risorsa più preziosa, stimata finanche dal mercato e (virtualmente) quotata in borsa dalla new economy, allora la scuola dovrebbe considerarla una priorità istituzionale, dovrebbe collocarla al centro della propria riflessione pedagogica, dovrebbe concentrare su di essa il massimo impegno, dispiegare tutti i mezzi disponibili e profondere le migliori energie (innanzitutto professionali), dovrebbe farne il cuore della propria mission.
Invece, a scuola s’insegna e s’impara a casa.
A scuola, è bene ribadirlo, non si insegna a imparare: si spiegano concetti, si descrivono fenomeni, si illustrano procedure, si narrano storie (Storia compresa), tutt’al più si formulano domande (spesso retoriche), s’inventano problemi (che nessuno si porrà mai, escogitati al solo scopo di crearne al discente), si svolgono temi (quasi sempre insignificanti per gli studenti), ma raramente si costruiscono o, più semplicemente, si forniscono strumenti metacognitivi. Spesso non si va oltre l’esortazione, blanda, ossessiva o terroristica: fate attenzione (ma cosa vuol dire?); procedete con metodo (quale?); concentratevi nello studio (come?).
Però i docenti pretendono dai loro alunni l’impiego di un metodo di studio, ne lamentano, in sede di valutazione, l’assenza o l’inadeguatezza, stigmatizzando, nei giudizi, l’incapacità degli studenti più sprovveduti, attribuendo loro per intero la causa della mancanza.
Il ragazzo non si applica, è dispersivo, non ha metodo: mai che a tali sentenze si accompagnino dichiarazioni impegnative per l’insegnante (Io che cosa ho fatto per aiutarlo a darsi un metodo?).
Ed è perfettamente logico: se è a casa che si impara, svolgendo appunto i “compiti” assegnati, la responsabilità del fallimento non può che essere dello studente e della sua famiglia.
Dunque il “compito” principale della scuola è di fatto delegato per intero allo studente che deve provvedervi autonomamente, con proprie risorse.
Risorse private, come lo sono le lezioni che altri insegnanti impartiscono al di fuori dell’orario di lavoro, per svolgere di pomeriggio quei compiti che loro stessi assegnano la mattina, allorché prestano il pubblico servizio cui sono istituzionalmente preposti; o, più in generale, per preparare il discente, per aiutarlo a imparare e, nei casi più felici, per dargli un metodo di lavoro, per fare, cioè quel che la scuola dovrebbe fare prima di ogni altra cosa.
Invero la scuola, al di là delle altisonanti petizioni di principio, delle rutilanti dichiarazioni d’intenti, delle edificanti enunciazioni programmatiche, si cura ben poco delle strategie metacognitive degli alunni.
La scuola di massa tende alla massifciazione, è una scuola della mediocrità.
La stessa scuola elementare, alla quale pur devono essere ascritti i meriti internazionalmente riconosciuti, ben poco si cura della dimensione metacognitiva nel processo di insegnamento-apprendimento.
È vero che ormai in quasi tutte le scuole si predispongono e somministrano “prove d’ingresso” per accertare le “competenze pregresse” degli alunni (e che di fatto, ancora un altro paradosso, finiscono con il legittimare gli scarti “in uscita”, giustificando con rigore quasi scientifico l’insuccesso scolastico). Ma sarebbe interessante verificare se all’accertamento del livello o, meglio, dei livelli di sviluppo cognitivo rilevati corrisponda una effettiva diversificazione dei percorsi didattici, l’attivazione di interventi di compensazione, l’impiego di mediatori didattici polivalenti; o se piuttosto non ci si limiti a fare quel che comunque si sarebbe fatto, proponendo un unico itinerario didattico per tutti i diversi destinatari, omogeneizzando forzosamente soggettività irriducibili a un modello artificiale e uniformante.
La scuola non si interroga su come gli studenti apprendono, sulle peculiari modalità di approccio al sapere che informano l’esperienza cognitiva di ciascun individuo, non aiuta a esplorare introspettivamente le proprie originali strategie apprenditive, così da poterle impiegare consapevolmente, sviluppare e integrare.
I docenti ignorano gli “stili cognitivi” degli allievi, e si limitano a un insegnamento univoco, oltreché unilaterale; non si curano di controllare la “proprietà”, la fruibilità degli interventi didattici, non è compito loro: loro insegnano, sono gli studenti che devono imparare (a imparare).
Dunque la scuola, paradossalmente, non fa proprio la cosa più importante, e gli insegnanti continuano a dare i compiti a casa, infiggendo agli alunni e alle loro famiglie un onere anche molto gravoso, tanto più pesante quanto più lo studente sia disagiato, bisognoso, solo, quanto più la sua
famiglia sia indigente e deprivata.
Già perché i ragazzi che abbiano genitori premurosi e culturalmente attrezzati possono affrontare l’impegno domestico con serenità o minore insofferenza; ma per chi non trovi nelle figure parentali sostegno e sollecitudine, e magari ne debba subire la latitanza o, peggio, l’intemperanza, l’ignoranza e l’insensibilità, le difficoltà poste dallo svolgimento degli stessi compiti assumono ben altra consistenza; la fatica, spesso incomprensibile e frustrante, è incomparabilmente più dolorosa.
Ancora un paradosso: gli studenti che non hanno problemi svolgono regolarmente i compiti loro assegnati, e per questo la scuola li premia; gli studenti che invece hanno problemi (personali e/o familiari), quelli che della scuola avrebbero più bisogno, non fanno i compiti, li sbagliano, li fanno male, indisponendo i docenti che per questo li biasimano e redarguiscono, inferendo con brutti voti, note e, finalmente, la bocciatura, punendo così l’indigenza, il disagio, la sofferenza, espellendo dal “sistema” proprio chi nel “sistema” potrebbe trovare l’unica opportunità di affermazione, di affrancamento e promozione.
La scuola discrimina e mortifica chi è più svantaggiato, marginale, infelice, declinando in nuova forma l’ingiustizia, l’offesa già subita.
Vediamo di riformulare sinteticamente i termini del paradosso.
Lo svolgimento del compito avviene in assenza del docente: lo studente è abbandonato a se stesso nel momento in cui avrebbe più bisogno dell’insegnante. È una delle poche, se non l’unica occasione nella quale gli alunni si confrontino con le procedure di interpretazione, selezione, sistematizzazione delle informazioni (elaborate, è bene ribadirlo, autonomamente).
Proprio la strutturazione, la gestione di questo tipo di tecniche dovrebbero essere particolarmente curate dagli insegnanti: è nella esplicitazione, nella presa di coscienza e nello sviluppo di tali processi che dovrebbe soprattutto esprimersi la professionalità docente.
Invece gli insegnanti non ci sono.
Ci sono, nella migliore delle ipotesi, i genitori, non di rado gli insegnanti privatamente assunti, spesso nessuno.
I compiti a casa sono assegnati, dunque, agli alunni e ai loro familiari, i quali devono farsi carico, pur senza disporre delle necessarie competenze (didattiche), del compito più importante che la società affida ai docenti.
Già dalla scuola elementare le famiglie sono costrette a convivere con la ferale incombenza che affigge quotidianamente in particolar modo madri e figli, funestando anche il tempo che dovrebbe essere consacrato al riposo, all’ozio, alla ricreazione.
È la iattura dei compiti per le vacanze.
Una contraddizione in termini (un altro paradosso) giacché le vacanze sono tali, o dovrebbero esserlo, proprio perché liberano dagli affanni feriali.
Nessun’altra categoria di lavoratori (e quello scolastico è un lavoro molto impegnativo, talvolta alienante e per giunta non retribuito) accetterebbe di prolungare nel tempo libero, e meno che mai di svolgere durante le ferie, compiti professionali imposti dal datore di lavoro (o padrone che dir si voglia).
È vero che molti insegnanti, soprattutto tra quelli che operano nella scuola primaria, dedicano una parte consistente del loro tempo libero (e persino parte delle molte vacanze) all’autoformazione e all’approfondimento culturale, ma lo fanno per loro scelta, tanto più encomiabile proprio perché libera.
Sarebbe interessante registrare le reazioni della categoria se il Ministro, o peggio, un dirigente scolastico assegnasse loro compiti da svolgere obbligatoriamente durante le vacanze natalizie, pasquali o estive, riservandosi di controllarne l’esecuzione e valutarne gli esiti.
Ma è del tutto normale che a una simile pretesa debbano assoggettarsi gli scolari: perché si esercitino e non dimentichino tutto quello che hanno imparato.
Evidentemente si ritiene che gli apprendimenti avvenuti durante l’anno scolastico (soprattutto con lo studio domestico) siano davvero ben poco significativi, molto artificiosi, pressoché
inconsistenti.
Così all’incubo feriale (Hai fatto i compiti?, …prima fai i compiti, Non hai ancora fatto i compiti… ) si aggiunge quello festivo.
Gli insegnanti fanno finta di credere che gli alunni amministrino razionalmente i compiti delle vacanze, e si affiggano con metodo, ripartendo con rigore matematico il lavoro complessivo nei tanti giorni a disposizione (formalmente destinati alle occupazioni più libere e gradite), in un edificante esercizio di quotidiana mortificazione. Ma sanno bene che così non è (salvo casi di grave disturbo della personalità).
Gli studenti più astuti, volitivi, capaci esauriscono nei primi giorni tutti i compiti assegnati, dedicandosi poi con sollievo al godimento della meritata libertà.
I meno saggi, i più pigri, i più svogliati rinviano quotidianamente l’impegno, che in questo modo li assilla per tutta la durata delle agognate vacanze, “riducendosi agli ultimi giorni”, durante i quali si impegnano in un tour de force che difficilmente risparmia i familiari; quei genitori che li hanno tormentati durante tutto il periodo della vacanza (le urla e le suppliche che si intensificano con l’approssimarsi dell’inizio delle lezioni non risparmiano neppure le spiagge meno frequentate), tormentati a loro volta dalle magistrali ingiunzioni.
Però gli alunni, come i loro insegnanti, fanno finta che i compiti siano stati svolti diligentemente e con assiduità: uno splendido esempio (davvero formativo) di ipocrisia sociale.
Naturalmente per i più disgraziati la consueta reprimenda.
Potrebbe essere istruttivo censire le modalità di trattamento, praticate da ciascun docente, degli elaborati così raccolti; i molti materiali (non solo cartacei) prodotti dai molti alunni (e dai loro genitori e/o insegnanti “privati”) nelle molte ore di lavoro scolastico extrascolastico: si potrebbe poi valutarne la pregnanza didattica, il senso pedagogico, il valore formativo…
Ma che tanto disagio, per non dire sofferenza (in molti casi di questo si tratta) serva a qualche cosa, nessuno si è mai peritato di verificarlo.
È incredibile, ma nessuno ha mai dimostrato che i compiti a casa incidano in qualche misura sullo sviluppo intellettivo degli studenti; peggio: nessuno si è mai posto il problema di dimostrarlo.
Eppure i costi, in termini di benessere personale, serenità familiare, qualità della vita (e quella che si trascorre a scuola e che dalla scuola è direttamente condizionata è tanta parte, una parte sempre più grande della vita di un individuo) sono altissimi.
I docenti delle superiori nemmeno si pongono il problema; la scuola media addirittura eccelle quanto a impegno extrascolastico degli alunni: una preminenza cui non si accompagna il raggiungimento di standard di qualità rassicuranti, meno che mai eccelsi, a giudicare dalle stime internazionali (ciò dovrebbe far riflettere sull’impostazione didattica generale, sull’efficacia degli studi così come si svolgono attualmente…).
Gli insegnanti elementari talvolta si giustificano, pavidamente, affermando che sono i genitori a richiederlo e che gli alunni si devono “abituare”, per non avere problemi quando saranno alla scuola media.
Sulla necessità che l’affinamento degli stili cognitivi, delle intelligenze, così come l’acquisizione di strumenti e metodi di lavoro siano (debbano diventare) l’oggetto dell’insegnamento impartito a scuola, in orario di servizio, si è già detto. Si può solo aggiungere che se a ciò fosse prioritariamente dedicata l’attività scolastica, i bambini “licenziati” potrebbero affrontare lo studio, anche nella forma in cui è inteso e praticato nella scuola media, con ben altra dotazione cognitiva (qualitativamente incomparabile rispetto a quella di cui oggi possono disporre).
La dichiarata (con sconvolgente disinvoltura) subalternità rispetto alle propensioni dei genitori, merita invece di essere attentamente considerata, giacché si tratta di un altro paradosso.
Spesso i docenti lamentano, a ragione, l’invadenza dei genitori, biasimata non meno della loro latitanza.
Capita, infatti, soprattutto nella scuola elementare, che i genitori si ritengano in diritto di insegnare agli insegnanti a insegnare, per il solo fatto di saper leggere, scrivere e far di conto, pretendendo l’applicazione delle tecniche e delle metodologie a loro più familiari (anche le più retrive).
Si tratta di una grave mancanza di considerazione professionale. Gli stessi individui si guardano bene dall’assumere il medesimo atteggiamento nei confronti del servizio offerto dal medico, dall’idraulico o dal geometra.
Ciò dimostra che, più o meno consapevolmente, non riconoscono ai docenti una specifica idoneità (tecnica).
Ma è molto più grave che gli stessi docenti abdichino al proprio ruolo, demandino ad altri (soggetti incompetenti) decisioni di loro esclusiva competenza, accreditando di fatto un’immagine della loro funzione (istituzionale) fortemente deprofessionalizzante.
Quale altro professionista sarebbe disposto ad attribuire ai suoi utenti responsabilità in ordine agli strumenti da impiegare nello svolgimento del proprio lavoro?
Che considerazione potremmo avere di un meccanico che ci chiedesse cosa deve fare per aggiustare la nostra automobile?
È vero che la scuola deve promuovere la partecipazione delle famiglie, cercare la collaborazione dei genitori valorizzandone il contributo, ma nella chiara distinzione dei ruoli, senza svilire o rinnegare la propria identità, assumendo il proprio mandato, motivando, certo, con trasparente chiarezza, le scelte pedagogiche e organizzative che comunque le competono.
L’assenza di confini genera confusione (di ruoli, di attribuzioni, di poteri), la chiara definizione delle identità promuove il confronto ed è condizione necessaria alla collaborazione.
Tutto ciò considerato, resta irrisolta la domanda iniziale (che si rimette all’attenzione dei diretti interessati): a chi e a che cosa servono i compiti a casa?
Dirigente scolastico di lungo corso, vive a Genova e si occupa di ricerca e formazione in campo socio-pedagogico, non ancora rassegnato all’impermeabilità degli apparati educativi. Fondatore, amministratore e portavoce del gruppo Basta Compiti, ha pubblicato numerosi articoli e alcuni saggi, tra i quali: «Basta Compiti, non è così che si impara» (Edizioni Sonda), «Non ho parole. Analfabetismo funzionale e analfabetismo pedagogico» (Armando), «Così impari. Per una scuola senza compiti» (Castelvecchi)
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